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Roma- Polo Nord, un fascino e un’attrazione senza tempo. Fin da quando le popolazioni del Nord Europa, i vichinghi, solcavano quei mari alla conquista di nuove terre da colonizzare. Tanto da spingersi fino in Groenlandia e, secondo alcuni storici, arrivare in Canada e America del Nord.
Luoghi inospitali e remoti, adatti a far germogliare leggende e miti che hanno in breve conquistato il cuore e la mente di studiosi e avventurieri.

Ma è nell’Ottocento che furono organizzate numerose spedizioni, finite tragicamente, per  raggiungere il ‘mare polare aperto’, un ampio bacino navigabile che avrebbe dovuto aprirsi alla vista degli esploratori una volta superate le terre artiche. A supportare questi fallimentari, spesso drammatici tentativi, fu per decenni la teoria di un cartografo tedesco, August Petermann, ossessionato dall’idea di una conquista per mare del polo Nord.

Nel suo libro “L’uomo che inventò il Polo Nord”, Philippe Felsch, professore di storia delle scienze umane alla Humboldt-Universität di Berlino, analizza e indaga le teorie cartografiche di Petermann che si rivelarono sbagliate e che costarono la vita di chi credette in loro.

 

Famosissimo nella sua epoca, già dimenticato una generazione dopo la morte – quando fu confermata la completa falsità delle sue teorie – Petermann potrebbe accomodarsi nella ‘sinagoga degli iconoclasti’ di Rodolfo Wilcock, tra i lunatici condannati alla fragilità delle loro escogitazioni.

Per il cartografo di Gotha il polo Nord era l’ombelico del mondo e la conquista di questo ombelico il compito più importante dell’umanità. Julius Payer, l’esploratore austriaco che scoprì la Terra di Francesco Giuseppe, chiamò Petermann “padre di tutte le spedizioni”. Jules Verne lo trasformò in una figura romanzesca. Eppure, benché all’epoca appartenesse all’aristocrazia internazionale delle esplorazioni polari, dopo la morte Petermann fu presto dimenticato.

Il perché è evidente: non era uno di quegli eroi che finivano congelati sul pack. Era un armchair explorer, come si diceva con scherno in Inghilterra, un esploratore da salotto. Petermann dirigeva l’impresa dell’esplorazione polare dal suo studio, da una tranquilla cittadina della provincia tedesca e di persona non si era mai spinto più a nord di Edimburgo. Ecco perché un’ombra di dubbio aleggiò sempre sulla sua reputazione. Per gli uni era il grande teorico, per gli altri lo svitato dell’Artico.

Sulla base delle sue teorie e delle sue carte immaginarie, velieri percorsero i mari ghiacciati del circolo polare artico nell’infruttuosa ricerca di una corrente d’acqua tiepida che consentisse di raggiungere il novantesimo parallelo Nord. Inutilmente cercarono le tracce della spedizione di John Franklin, perduta nella ricerca del passaggio a Nord Ovest; molti smarrirono la rotta e naufragarono tra i ghiacci come la Admiral Tegetthoff di Julius Payer.

Nel settembre del 1878 Petermann si sparò un colpo alla tempia, forse deluso dai suoi fallimenti, forse semplicemente depresso d’indole. L’anno successivo l’ufficiale americano George Washington De Long a bordo della Jeannette tentò un ultimo assalto al polo Nord, ancora una volta facendo affidamento sulle carte di Petermann. Quello che ne seguì fu un ulteriore tragico fallimento e una vicenda tra le più avventurose e drammatiche dell’epopea artica.

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