Castiglione della Pescaia- Si è spento questa notte, nella sua casa di Castiglione della Pescaia, Renzo Guidi. Lo ricorderete senz’altro come diciassettesimo uomo su Luna Rossa nella Coppa America 2000 ad Auckland. Maestro di mare e di vela di Patrizio Bertelli, aveva 86 anni. Aveva sempre voluto navigare nel suo mare, il Tirreno.

Ciao Renzino. Questa notte ci ha lasciato Renzo Guidi, maestro di mare e di vita. Ha vissuto come voleva lui, sempre con le sue isole all’orizzonte. Le serate passate insieme ad ascoltare i suoi racconti di mare per scrivere il nostro libro sono uno dei ricordi più formativi e coinvolgenti per chi scrive. Ciao Renzo, davvero che il tuo vento di porti lontano. Per ricordarlo ripubblichiamo qui il suo racconto della scoperta dell’Isola di Montecristo, tratto da “Il Vento fin Qua”, Interlinea/Magenes:
La mia isola
In quegli anni mi spinsi sempre più lontano, fino a toccare tutto il mio orizzonte e anche più in là. Nel 1945, in giugno, arrivai per la prima volta alle Formiche1. Poi al Giglio e, in settembre, a Giannutri. Navigavo molto, praticamente tutta la primavera e tutta l’estate, ma la mia isola, quella che mi attirava più di ogni altra, era proprio Montecristo, così misteriosa, laggiù all’orizzonte nelle belle mattinate di Levante. Ci volevo proprio andare. E nel 1946, a diciannove anni, vi approdai per la prima volta.
Allora conosciuta da pochi e sconsigliata da tutti, distante 40 miglia dalla costa, senza servizi, disabitata, Montecristo2 era stata una riserva di caccia del Re. In Cala Maestra c’era un moletto d’attracco e, poco distante, la villa.
Sapevo che certe volte, con tempo buono, un peschereccio di miei amici faceva doppino, ovvero partiva verso la mezzanotte, andava a barca libera per due o tre ore, poi gettava la rete in pesca e, alle prime ore del giorno, passava vicino a Montecristo. Lì sarei potuto scendere nella mia barca, che avremmo trainato, per fare le due o tre miglia che mi avrebbero separato da Cala Maestra. La sera, al ritorno, i pescatori si fermavano nell’isola per riposare qualche ora per poi riprendere la pesca. I miei amici acconsentirono e così feci.
Non stavo più nella pelle. Partimmo in piena notte, con la mia barchina al traino.
La mattina, verso le sette, eravamo a un paio di miglia da Cala Maestra.
“Puoi scendere – disse il più vecchio – stasera, prima che venga notte, noi saremo a Cala Maestra. Si mangia insieme e ci dirai se torni con noi o se resti. Spero che per allora avrai deciso”.
Salii sulla mia barchina. Il peschereccio, che già stava trainando la rete, si allontanò.
“A stasera!”, gridarono.
Io salutai con la mano, emozianatissimo. Mi ritrovavo, da solo, in quel mare enorme, che mi parve anche più azzurro del solito. Di fronte avevo quella montagna immensa, alta come non avrei mai pensato, abituato com’ero a vederla da lontano, dalla spiaggia del mio paese. Un colosso. Non lo nascondo. Ebbi paura, anche se la curiosità fu più forte.
Dato che era bonaccia, iniziai a remare verso terra finche non arrivò una brezzolina. Aprii la vela e cominciai a scivolare sull’acqua a una discreta velocità. Il vento aumentò e feci presto a prender terra. Tolsi la vela e, a remi, entrai in Cala Maestra, un’insenatura che subito mi sembrò meravigliosa. Mi avvicinai al moletto e attraccai. Nel silenzio.
Solo uno sciacquettio del mare mi dava il benvenuto in quel paradiso. Da dove mi trovavo, saliva improvvisa una montagna rocciosa che arrivava fino al cielo. In quel silenzio assoluto, titubante, mi incamminai per un sentiero, che si insinuava dolcemente verso l’interno.
“C’è nessuno?”, domandai a bassa voce.
Tremavo. Io, così piccolino, ai piedi di quella montagna, irta, che si specchiava in quella cala azzurra. Pensai di essere in un altro mondo. Chissà, forse ero veramente in paradiso. “Chi mi verrà incontro? Forse un uomo con il vestito bianco e la barba bianca, o chi?”, dissi a bassa voce. Dopo qualche altro passo, sentii il ragliar di un ciuco. “O questo, che ci fa!?”, sobbalzai.
A destra mi apparve una casa abbandonata, forse la casa del Re. A sinistra, una casa più piccola, quella che doveva essere la casa dei custodi. Al ragliar del ciuco, infatti, venne fuori un uomo non alto ma grasso.
“Buon giorno!”, gridai.
“Qual buon vento? Da dove vieni ragazzo”, mi rispose.
“Dal continente.”, ribattei orgoglioso.
“Sei solo?”.
“Sì, ho attraccato la barca al moletto”.
“Vieni, vieni, se vuoi puoi mangiare con noi”.
“No, grazie, ho già mangiato”, risposi, dato che mi ero accorto che loro avevano quasi finito di pranzare.
Vennero fuori tutti, al riparo del sole, sotto una grande stuoia di canne. C’erano la moglie, la figlia, il genero e due bambini, uno di tre e l’altro di nove anni. Quest’ultimo era venuto dall’Elba, dove passava l’inverno con i nonni, per frequentare la scuola. Mi sembrò che fosse felice di essere lì.
“Come hai fatto a venire sin qui?”, mi chiese il marito della figlia.
Dopo averglielo spiegato, aggiunsi che quella sera i miei amici pescatori sarebbero venuti nella cala, per dormire in rada, e che durante la notte sarebbero ripartiti per continuare la pesca.
“Vorrei rimanere qui, se voi lo permettete, altrimenti riparto con loro. Passano di qui quasi tutte le settimane se il tempo è buono. Dormirei e mangerei nella mia barca e, se avete bisogno, vi aiuterei a fare qualcosa”, chiesi con un po’ di timore.
“Se sei sicuro, puoi rimanere”, mi rispose il nonno.
“Grazie, grazie, ci vediamo più tardi, vado a vedere se ho ormeggiato bene la barca”, dissi trattenendo a stento l’entusiasmo.
Camminavo e saltavo, tanta era la gioia per essere arrivato nella mia isola. Erano i primi di giugno e faceva già un gran caldo. Avrei voluto preparare la barca, mettere la tenda sul boma, fissarla per la notte, ma la barca mi sarebbe servita in serata, quando i miei amici sarebbero tornati e sarei dovuto andar da loro a comunicare la mia decisione. Mentre stavo contemplando la meraviglia dove ero arrivato, dall’alto arrivarono il suocero e il genero.
“Ciao, che bella barchina che hai”, mi dissero sorridenti.
“Ho qui una fiocina e dei filaccioni, pescherò e vi porterò il pesce”, risposi felicissimo.
“Grazie, come ti chiami?”.
“Renzo, e voi?”.
“Giovanni”, disse il suocero.
“Nilo”, ribatté il genero.
Andavano a prendere il gasolio per metterlo nel generatore di corrente che era più su, distante, per non dar fastidio con il rumore.
Io misi a posto le mie provviste, che conservavo in un contenitore: carciofi e funghi sott’olio, un salame, acciughe sotto sale, pane, pasta, sale, olio, un tegame, una pentola per la pasta, una gratella. Prima che venisse notte, arrivò il peschereccio dei miei amici e dette fondo in rada. Appena ebbe spento il motore tornò il silenzio.
“Renzo, vieni, che si mangia il cacciucco”, mi dissero vedendomi sul moletto.
“Possono venire questi due miei amici?”, chiesi indicando i due custodi.
“Venite a bordo?”, ribatté il capopesca.
“Vengo con piacere”, disse Nilo mentre Giovanni non volle lasciare sola la famiglia.
Salimmo sulla mia barchina e, in quattro remate, arrivammo a bordo del peschereccio, da dove proveniva un profumo invitante. Feci le presentazioni. Si salutarono.
“Questo ragazzo vuol rimanere qui”, disse Nilo.
“E’ venuto apposta”, risposero loro ridendo.
“Pûò rimanere fino a che non tornate, anche un mese”, concluse Nilo.
Era sempre giorno. Ciascuno di noi prese il suo piatto, una forchetta e si avvicinò al grande tegame con il ramaiolo. Il cacciucco era squisito. Prendevamo la zuppa e la mettevamo nel piatto, sopra il pane abbrustolito e agliato. Vi aggiungevamo pesce a piacere, una granfia3 di polpo, un pezzo di palombo, un calamaro, uno scorfano o un pesce prete. Ci sedemmo e iniziammo a mangiare quella squisitezza appena pescata e cotta, accompagnata da un buon bicchiere di vino rosso. Di tanto in tanto aggiungevamo pane, liquido o pesce a piacimento. Anche Nilo era contento di aver accettato l’invito. Era quasi notte. Poco prima di scendere a Nilo furono regalati un po’ di calamaretti e cicale. “Grazie – disse Nilo – questo è un tipo di pesce che qui non possiamo avere”.
Ci salutammo dandoci appuntamento per quando sarebbero tornati. Nilo andò a casa. Io rimasi nella mia barchina.
“Buona notte”.
“Ciao”.
Misi la tenda, gonfiai il materassino e mi misi a dormire. Durante la notte sentii il rumore dei miei amici che stavano partendo, ma non mi alzai.
La mattina, con il sole già alto, mi svegliai in quella cala di sogno, dove la montagna si rispecchiava nel mare azzurro e la dolce musica della risacca mi dava il buongiorno. Tutto, intorno, taceva per ascoltare quel suono. Ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, vorrei poter trovare le parole giuste per descrivere quel momento.
Aprii la cambusa e feci la mia prima colazione a Montecristo. Verso le otto mi incamminai verso la casa dei custodi. Arrivai appena in tempo, perché gli uomini stavano per avviarsi alla sorgente. Data la buona giornata mi chiesero se volevo andare con loro. Accettai con grande piacere. All’altezza di circa 400 metri, tra due grandi rocce, sorgeva una bella bolla d’acqua limpida che cadeva in un pirozzo scavato nella roccia. Si formava così una bella vasca d’acqua chiara e fresca, che si incanalava in un tubo per raggiungere a valle la casa e un’altra cannella vicino al moletto. Recingemmo tutto con una nuova rete, perché non entrassero animali.
L’isola è alta 645 metri ed ha una circonferenza di 6 miglia. Oltre alla famiglia del guardiano e a qualche guardia forestale di passaggio, ci abitano circa 800 capre. Ne furono fatte portare alcune coppie da un’isola greca, per ordine del Re. Vi sono anche conigli selvatici, vipere, topi ed è luogo di passo per molti uccelli migratori.
Verso mezzogiorno eravamo di nuovo a casa. Il tempo di mettere la pasta, prendere un po’ di fiato e ci mettemmo a tavola. Luisa, la figlia, posò sul tavolo un vassoio di pasta condita con i calamaretti e dei pezzetti di cicala. Una vera delizia. Armelinda, la madre, passò con un tegame porgendoci un ramaiolo di calamaretti bolliti. Sembrava di mangiare il mare. Il pane, buonissimo, se lo facevano da soli. La farina la portavano dall’Elba. Rimasi a mangiare con loro anche la sera. C’era una zuppetta di cicale. Poi i genitori con i ragazzi mi accompagnarono alla barchina, alla fine del mio primo giorno a Montecristo.
Più tardi, durante la notte, arrivarono i pescatori ponzesi. Venivano dallo Scoglio d’Africa, una secca a 10 miglia da Cala Maestra. Venivano per depositare le aragoste nel vivaio e per un po’ di riposo. Si misero vicini a me e dovetti alzarmi per vedere cosa succedeva. Dopo aver messo le aragoste nel vivaio, prima di mettersi a dormire, mi chiesero se ero solo.
“Sì”, risposi io.
“Stai tranquillo, se viene il maltempo ti aiutiamo noi”, mi dissero prima di scendere sottocoperta.
La notte passò con un po’ di stirazza4, ma loro dormivano, come del resto io. La mattina mi spiegarono che quando in quella baia tranquilla arrivavano i venti da Nord Ovest, l’ormeggio diventava pericoloso e che bisognava prevenire la cosa, per girare in tempo intorno all’isola e trovare un riparo sottovento, per evitare così di restare intrappolati. Loro, che dormivano sempre con un occhio chiuso e l’altro aperto, erano tranquilli, ma io? In quello stesso giorno, con l’aiuto dei custodi, tirai la mia barca in terra.
I ponzesi rimasero tutto il giorno, aggiustando le nasse e riposandosi, prima di riprendere il mare. Prepararono un fornello a carbone sulla prua, fecero una pastasciutta e arrostirono dei pesci senza mai scendere dalla barca. Dormirono e durante la notte seguente ripartirono, lasciando lì un vecchio con una barba lunga e bianca. Doveva essere il babbo di uno dei pescatori. Aveva l’incarico di badare alle aragoste e aggiustare le nasse. Stava sempre in silenzio. Dormiva un po’ più in là, in una vecchia guardiola. Parlava italiano, ma non si capiva molto. Rispondendo a una mia domanda mi disse: “Sempre nasse aggio a fa”. Aspettava che tornasse suo figlio e quelli che, una volta alla settimana, venivano a prendere le aragoste dall’Elba. I pescatori continuarono a fare avanti e indietro dallo Scoglio per giorni. Scendevano solo per depositare le aragoste. Mangiavano e dormivano sulla barca, poi ripartivano. Mi sembravano un incrocio tra i delfini e i gabbiani. Ai custodi piacque questa mia definizione.
Certe volte il vento arrivava da Nord Ovest e il mare nella Cala si agitava. La mia barca era in terra ed ero tranquillo. Rimasì lì, con loro, per un mese intero. Di tanto in tanto mettevano in mare la loro barca a motore per girare intorno all’isola e pescare. Era molto pratico.
Potevo dormire sulla mia barca e spesso andavo a mangiare con loro. C’era sempre un buon piatto di pasta e un pesce fresco. Potevamo anche prendere un’aragosta dal vivaio dei ponzesi, una pesca davvero facile, o i pesci pescati da noi. Per la carne bastava decidere e il custode, che sapeva quale capretto era pronto, poteva prenderlo con una sola fucilata. Dopo due giorni girato a fuoco lento, veniva cotto. Era buonissimo. Con la stessa fucilata si poteva cacciare un coniglio selvatico, per cuocerlo alla cacciatora con il pizzico giusto. Una vera ghiottoneria. Le verdure le avevano nell’orto, ben protetto per non far entrare gli animali al pascolo. Quando veniva la barca dall’Elba a prendere le aragoste, ci portava qualche piccola cosa. Di tanto in tanto passava un guardiacoste della Marina per le provviste mensili come farina, carburante per la luce e la barca, olio, vino…
Non si vide mai nessuno a parte, quasi tutte le notti, i pescatori ponzesi e, in qualche occasione, dei pescherecci capitati lì per riposare. Io dormivo nella mia barchina e sentivo tutto il movimento della cala. Riconoscevo ogni dettaglio, ogni ondina, ogni rumore. Non ero solo, la mia isola mi faceva compagnia.
Andammo qualche volta fino alla cima più alta dell’isola, perché il guardacaccia doveva osservare sempre il movimento delle capre e vedere che non entrassero estranei nell’isola. Più spesso salimmo fino alla sorgente. Tenevamo in ordine la casa e l’orto. A volte andavamo alla villa che, però, durante la guerra era stata deturpata. I giorni passavano in fretta e verso la fine di giugno, nelle prime ore del pomeriggio, arrivarono i miei amici con il peschereccio. Dovevano riparare una piccola avaria al motore e poi sarebbero ripartiti. E io con loro. Mentre facevano il loro lavoro, andai a salutare la famiglia perché durante la notte sarei ripartito. Quando arrivai , vidi che stavano costruendo un muro di protezione, con delle pietre trinate dal ciuco su un carretto. Li aiutai a scaricare e dissi che erano arrivati i miei amici.
“Stanno facendo una riparazione ma questa notte partiremo”, dissi.
Vollero che tutti salissero su a mangiare. I quattro uomini di bordo accettarono con molto piacere. Portarono il brodo preparato con gli sparaglioni. Armelinda lo fece bollire e ci mise della pastina e dei pezzetti di pane. Portarono anche degli argentini che, fritti, diventarono buonissimi. Il custode tirò fuori anche il coniglio di pizzico giusto. Il vino bianco del Giglio era nel peschereccio e venne portato su dai ragazzi. Ne venne fuori un pranzo con i fiocchi. L’insalata veniva dall’orto e c’erano anche delle susine piccole ma buonissime. All’ultimo bicchiere di vino i miei amici erano contenti.
Prima che venisse buio ci salutammo. Ringraziai tutta la famiglia.
“Quando ritornerai – mi dissero – dovrai portare il caffè e lo zucchero, olio, cartucce e una manna di giunchi”.
“Arrivederci”, dissi un po’ emozionato.
Usammo la mia barca per salire sul peschereccio, dopo di che la preparammo per il traino. Verso le tre della notte partimmo e, dopo poco, ci mettemmo in cala per far rotta su Castiglione.
Continuai a tornare nella mia isola per diversi anni, fino a che restò quella famiglia. Una volta, nel 1957, ci andai con una barca nuova, un gozzo di 7 metri con vela alla portoghese e un motore diesel a un cilindro, come quello dei ponzesi. Portai con me cinque amici, che erano entusiasti dei miei fantastici racconti su quell’isola meravigliosa. Fu una settimana davvero indimenticabile. Dormivamo in quattro in barca, mentre gli altri due stavano a terra, con una tenda. C’era sempre la stessa famiglia, che apprezzò molto la nostra presenza. Esploravamo Montecristo per mare e montagna. Pescavamo. Mangiammo il capretto con i custodi. Purtroppo avevamo una scadenza precisa per ripartire, visto che di lì a poco ci sarebbero state le elezioni e saremmo dovuti tornare a Castiglione per votare. Chiedemmo ai custodi se andavano anche loro. Ci risposero che sarebbero andati all’Elba, se qualcuno fosse venuto a prenderli con l’elicottero, come già era successo in passato. Altrimenti, aggiunsero, sarebbero rimasti ben volentieri sull’isola.
C’era sempre il vecchio ponzese, che se ne stava nella guardiola. In silenzio, da solo, aspettava tutto il giorno i suoi amici a guardia delle aragoste.
“E voi, nonno, non andate a votare?”, gli domandai poco prima di partire.
Lui stava, al solito, facendo una nassa, seduto su un sasso. Alla mia domanda, alzò la testa, seminascosta da un vecchio cappello, e mi rispose con queste parole e uno sguardo stanco:
“Sempre nasse aggio a fa!”, e io non ho ancora dimenticato quell’espressione e quella frase.
Furono le sole parole che, in tanti anni, scambiai con il vecchio pescatore, a parte quelle che mi spinsero a salire alla Grotta del Santo per portargli l’acqua miracolosa. A Montecristo, infatti, su in alto, ben sopra il convento che fu dei Monaci di Camaldoli si apre, tra imponenti liscioni di granito, la Grotta del Santo. L’uomo santo in questione è Mamiliano5, patrono del Giglio, che visse come eremita in quest’isola nel Medioevo. Nella grotta da lui abitata sgorgava e sgorga ancora una sorgente che la leggenda ritiene sia miracolosa. A Ponza, come nel resto del Tirreno, i marinai ne conoscevano e rispettavano le doti. In cambio, negli anni, la grotta si è riempita di ex voto, in ringraziamento dei pericoli scampati in mare.
Io non capivo molto di ciò che diceva, ma era chiaro che il vecchio ponzese ci tenesse. A volte, mi ripeteva che sarebbe voluto salire fino alla Grotta per prendere l’acqua del Santo e portarla ai suoi parenti e amici a Ponza. Solo che era vecchio e non ce l’avrebbe fatta.
“Nonno, non vi preoccupate – dissi una mattina – ve la porto io”.
Così feci, salii e scesi dopo un paio d’ore con l’acqua per il vecchio. Era sempre lì, sul suo sasso’ a intrecciare nasse. Mi accennò un sorriso. Mi sembrò che fosse proprio felice.

Ci sono tornato in un altro periodo, forse nel 1965. Allora l’isola era affittata a una Società di Milano come riserva di caccia. Avevano rimesso a posto la villa del Re. Arrivavano a gruppi per cacciare le capre. Non mi fecero restare, era proibito a chi non era socio. Avevano anche cominciato a costruire nella Cala Maestra. La mia isola non era più la stessa. Uccidevano molte capre e facevano i padroni. Non andò avanti a lungo, però. La cosa, per fortuna, venne all’orecchio dei giornalisti, e in particolare di Mauro Mancini6, che scrisse degli articoli di fuoco per veder chiaro in quella faccenda. Presto lo Stato si riprese la riserva e ne fece un Parco Naturale per studi. Fu messa in mano alla Forestale e ritornò a essere il Montecristo di un tempo.
Molto bene e molto bello, ma io come avrei fatto ad andarci? Dovevo inventare qualcosa. Il permesso per visitarla veniva dato solo per studi, o forse anche per qualcos’altro. Per me la faccenda si complicava, ma dovevo assolutamente rivedere la mia isola.
Inventai di fare il naufrago. Nel 1984, con una deriva lunga 420 centimetri, da campeggio nautico, armata alla Marconi7 con fiocco e randa, mi misi d’impegno. A prua c’era un gavoncino serrato ermeticamente, per le provviste. La poppa era chiusa. Anche se la barca era inaffondabile, aggiunsi due cilindri gonfiabili, che mi sarebbero serviti per tirare in terra la barca. Li fissai sotto la panca, uno a destra e uno a sinistra. Preparai una tenda per la notte, come ai vecchi tempi, da mettere sul boma, per consentirmi di dormire sul pagliolo. Preparai anche la barca con un motore fuoribordo di 4 cavalli. Presi una carta, una bussola e, di prima mattina, verso il 10 di giugno, con il solito vento da terra, partii. Rotta Isola d’Elba, per avvicinarmi a Montecristo. La sera, con la barca alata in terra su una spiaggia disabitata dell’Elba, misi la tenda e consumai la mia cena. Pochi passi sulla spiaggia e, appena fu notte, in pozzetto a dormire. La mattina seguente, prima di giorno, era tutto sereno e bello. Levai la tenda, misi la barca sulla battigia e mi preparai per partire. Quando iniziò ad albeggiare, io ero già pronto, perché per sperare di arrivare a Montecristo dovevo salpare molto presto. Non sapevo se sarei riuscito ad arrivarci. Se si fosse messo vento contrario, sarei dovuto tornare indietro o, forse, addirittura a casa, insomma sarei andato dove mi portava il vento. Non potevo affrontare, con una barca così piccola, il vento in prua, bolinando in mezzo al mare. Il vento a quell’ora era buono, per cui bisognava partire. Più mi allontanavo e più mi accorgevo della difficoltà dell’impresa, con più di 25 miglia ancora da coprire. Il vento, per il momento, si manteneva favorevole e continuavo bene. Più tardi, mi dissi, si sarebbe dovuto mettere il Maestrale e io ero nel punto giusto per arrivar bene. C’era una leggera nebbia che, dopo un po’, diventò impenetrabile. La direzione sulla bussola restava buona, ma ecco la bonaccia. Non c’era tempo da perdere, misi in moto il mio motorino e continuai per la giusta rotta. Dopo un po’ arrivò il vento contrario. Uno Scirocco che mi costrinse a bordeggiare. Spensi il motore e andai avanti. All’improvviso la nebbia sparì e mi apparve una grossa montagna. Era lei, la mia isola. Emozionato; avevo ormai 57 anni ma ero ancora emozionato per quella visione. Mi sembrava di essere arrivato ma ci vollero ancora tre ore per toccare Montecristo.
Entrai nella Cala a vela ma, dato che con quel vento era un ridosso perfetto, ben presto mi ritrovai in bonaccia. Mi avvicinai pian piano, a remi. Allo scalo vidi due gommoni dei Carabinieri, senza persone a bordo. Anzi, non c’era proprio nessuno in vista. Erano le prime ore del pomeriggio e faceva un gran caldo. Chissà, forse dormivano. Mi avvicinai, mettendomi a fianco dei gommoni. Tutto taceva. Non passò molto tempo, però, che sentii dei passi. Mi raggiunse un uomo, uno della forestale.
“Qui non si può stare!”, mi disse perentorio.
“Dove posso mettermi?”, chiesi pensando che fosse riservato ai Carabinieri.
“Deve andare via, non si può stare sull’isola!”, mi apostrofò immediatamente.
Quando seppi che quella era l’isola di Montecristo finsi meraviglia e dissi che era troppo lontana dal continente, che non potevo riprendere il mare, che non sapevo dove era il mio paese, che ero stanco. Insomma, gli spiegai le ragioni per le quali ero arrivato sin lì.
“Son due o tre giorni che sono partito da Castiglione – dissi – volevo andare a Punta Ala, dove avevo un appuntamento con dei miei amici per fare campeggio. Prima di arrivare a Punta Ala, si è messo vento forte da terra che mi ha portato molto fuori. Poi è venuta la notte e non ho visto più nulla. Il vento ha continuato a spingermi sempre più fuori. La mattina dopo era bonaccia e ho messo in moto il fuoribordo, ma subito si è messo un vento più forte che mi ha costretto a seguirlo. Poi ancora notte. Non ho visto nessuno. Un vento leggero mi portava con sé e io andavo con lui. Questa mattina una grande nebbia e, quando è andata via, mi è apparsa questa montagna, dove mi sono diretto. Ora come faccio a tornare via? Anzi, se c’è un telefono, vorrei dare notizie a casa”. Insomma, ci avevo provato.
“Va bene, va bene – mi disse il forestale – ora vediamo quando viene la Vedetta della Finanza, se stasera non è arrivata, venga su a telefonare”.
“Grazie, grazie”, risposi sperando che se ne andasse.
Se ne andò.
C’era un po’ di maretta. Dopo un po’ scese alla cala il capitano dei carabinieri per tirare in secco i gommoni. Con lui c’erano altri due Carabinieri, con la muta da sub. Tirarono su i gommoni e, già che c’erano, alarono anche la mia barchetta visto che le onde la strapazzavano non poco.
“Ma lei… con questa barchina è venuto sin qui?”, mi disse all’improvviso il capitano, un po’ perplesso.
“Questa è la mia isola – risposi scoprendo le mie intenzioni – son venuto sempre qui da ragazzo e dovevo tornarci. Non potevo farne a meno. Ho preso questa barchina e, facendo il naufrago, son venuto sin qui”.
Gli dissi la verità perché il carabiniere non era lì per mandar via la gente, ma doveva accompagnare gli studenti subacquei inviati a Montecristo dall’Università di Genova.
“Ah, quindi lei è pratico dell’isola?”, mi chiese stupito.
“Perdinci, se la conosco – risposi – ci ho vissuto, ci sono stato per mesi”.
“Potrebbe accompagnarci lassù in montagna, perché noi non conosciamo il sentiero?” chiese.
“Se mi fate star qui, ne sarei ben lieto, ma mi hanno detto che mi vogliono mandar via”, ribattei. “Guardi, stia tranquillo, vedrà che lei riuscirà a star qui. Piuttosto, senta, ha fame?”, mi chiese rallegrandomi come di più non avrei potuto sperare.
“Beh sì, ho fame”, risposi, mentendo, perché avevo tutta la mia attrezzatura nascosta e avevo già mangiato.
“Bene”, ribatté facendo un cenno a uno dei ragazzi con la muta. Questi si immerse e ritornò dopo poco con un sarago pizzuto di tre chili.
“Tra quaranta minuti venga su in villa a mangiare con noi. Come lo vuole, bollito o arrosto?”, mi chiese il capitano.
“Lei mi ha chiesto se avevo fame, lo faccia un po’ come vole, vedrà che poi io lo mangio”, risposi. “Bene, tra quaranta minuti alla villa”, disse avviandosi.
Il sarago era una delizia.
Rimasi dieci giorni sulla mia isola. Mi venivano a trovare, io andavo da loro. Li accompagnai in cima all’isola, a 645 metri d’altezza. Arrivammo sul punto più alto, dove c’è un sasso enorme, alto una ventina di metri, con una ferrata per salire in cima, dove neanch’io ero mai salito. Sembrava di essere su un campanile. Mare da tutte le parti. Ebbi anche paura a scendere, in preda alle vertigini, tanto che due carabinieri dovettero aiutarmi.
Una mattina, mentre ero rimasto solo, entrò in Cala Maestra una barca che conoscevo. Era di un mio amico austriaco, che veniva dalla Corsica.
“O Renzo, che ci fai qui?”, mi urlò dal mezzo della baia.
“Che fo, sto qui, o voi?”, domandai a bassa voce.
“Fuori è tempaccio, Renzo, si viene dalla Corsica, dormiano qui e domattina si riparte per l’Argentario”, disse.
“Zitti, zitti. Non chiamatemi per nome. Sentite – sussurrai, non appena si furono avvicinati – fate finta di non conoscermi, perché sennò mi mandano via”.
Loro ormeggiarono ma la forestale non gli permise di rimanere per la notte. Gli fecero far acqua, un po’ di riposo e poi via, gli intimarono di salpare. A me no, non dissero niente. Io ero nella mia isola. Finalmente.
1 Formiche di Grosseto, piccoli scogli situati al largo della costa maremmana, 11 miglia a sud di Castiglione della Pescaia. Sul più grande, l’unico su cui sia possibile sbarcare, si trovano tre piccoli imbarcaderi e un faro.
2 L’Isola di Montecristo è la più selvaggia e isolata dell’Arcipelago Toscano. Si tratta di una montagna di granito, alta fino a 645 metri al Monte della Fortezza, che si erge in mezzo al Tirreno, a 25 miglia dall’Elba e dal Giglio e a 40 miglia dalla terraferma. E’ sede di una Riserva Naturale che l’ha salvata dalla speculazione edilizia.
3 Tentacolo
4 Risacca
5 San Mamiliano, patrono del Giglio. La leggenda vuole che Mamiliano, Vescovo di Palermo, si fosse rifugiato sull’isola nel V Secolo, durante le discese in Italia dei Vandali. Mamiliano visse nell’isola da eremita, fino a morirvi. Un’altra leggenda vuole che Mamiliano avrebbe avvertito gli abitanti dell’Elba e del Giglio che, quando si fosse sentito vicino alla morte, avrebbe acceso un fuoco sulla sommità dell’isola. Così fece, i gigliesi e gli elbani arrivarono per contendersi le spoglie del sant’uomo. Nella lite si spezzò un braccio, che ancora oggi è conservato nella chiesa di Giglio Castello. La Grotta del Santo, dove sgorga in un’ampolla l’acqua ritenuta miracolosa dai naviganti del Tirreno, si trova in un anfratto che si apre a mezza costa, tra i liscioni di granito dell’isola, poco sopra il Convento, a circa 350 metri di altezza. Il Monastero di San Mamiliano, a Montecristo, ormai in rovina, fu fondato dai monaci benedettini e poi appartenuto ai camaldolesi tra il 1230 e il 1450. Fu abbandonato nel 1553, in seguito alla devastazione del corsaro Dragut. Le dicerie sulle sue ricchezze, derivate dalle donazioni ecclesiastiche, dette vita alla leggenda di un fantomatico tesoro che vi sarebbe stato nascosto. Da lì uno degli spunti per il romanzo popolare “Il Conte di Montecristo” di Alessandro Dumas padre.
6 Mauro Mancini, fiorentino, giornalista della Nazione e grande appassionato di mare. Autore della fortunata serie dei Navigare Lungocosta, i portolani illustrati sulle coste di tutto il Tirreno editi da Nistri Lischi di Pisa. Narratore d’eccezione, capitava spesso a Castiglione della Pescaia dove intratteneva gli amici con i racconti dei suoi viaggi da inviato in giro per il mondo. Seguì anche la vicenda di Ambrogio Fogar. Proprio per accompagnare il navigatore milanese, per capire chi fosse veramente Fogar, si imbarcò sul Surprise verso l’Atlantico Meridionale. Dopo il naufragio dello sloop, Mancini rimase per 74 giorni su una zattera con Fogar. Morì il giorno dopo essere stato salvato da un mercantile greco, il Master Stefanos, diretto a Città del Capo.
7 L’armatura alla Marconi prevede randa triangolare, inferita su albero e boma, e fiocco.

Saluto con affetto anche se l’ho appena conosciuto buon vento. Il suo raccontare non mi fa prendere sonno …